La natura ritratta e l’ “io” svelato

La natura ritratta e l’ “io” svelato

di Pietro C. Marani

 

 

Introducendo la mostra monografica di Gianluca Corona a Palazzo Farnese a Piacenza, dell’autunno del 2003, mi ero soffermato sui suoi ritratti, stupefacenti per la tecnica pittorica e la loro verosimiglianza al dato naturale, e sui sui disegni, dove ritrovavo una tecnina disegnativa paragonabile a quella dei maestri antichi noostante che i suoi disegni sembrassero del tutto calati nel nostro tempo, e non solo perchè i suoi personaggi appaiono ben vivi e tutti presi dalla vita reale o dal loro ruolo nella società contemporanea, ma anche perché il “filtro” con cui Corona guarda all’essere umano, ai bambini o alle signore della buona società, è quello che gli permette di vivisezionare ogni piega, ogni ruga o accedentalità per coglierne l’aspetto più intimo e segreto, per indagarne la psiche, prima ancora che il carattere.

Questo atteggiamento, in cui un ruolo importante è svolto dall’intermediazione della fotografia, è manifestato ancor meglio dai ritratti dipinti, presentati con dovizia di varianti e di “tipi” nella mostra di Palazzo Farnese, che mancano invece in questa rassegna milanese.

E’ tuttavia importante richiamarli, perchè i temi offerti in questa esposizione si riagganciano molto bene al tema del ritratto, anche se si tratta qui di “nature morte”, dato che i ritratti, anzi, ne costituiscono forse la premessa imprescindibile.

Quando si ricordasse che in molti dei ritratti di Corona l’uomo appare come vivisezionato, prima dalla macchina fotografica e poi dal pennello dell’artista, come se il fotografo-pittore-chirurgo abbia indatato col bisturi nelle carne del personaggio e nella sua indole, saremmo più preparati d avvicinare i suoi dipinti raffiguranti, come appare in prima battuta, frtutta e ortaggi.

Avevo letto, allora, le nature morte di Gianluca Corona in una maniera anticonvenzionale, e forse “freudiana”, al punto che lo stesso artista mostrò di risultarne imbarazzato (e forse scolvolto).

Mi sembra però che quella lettura cogliesse nel segno, almeno a giudicare dagli svuluppi successivi del lavoro di Corona, dove egli ha sviluppato sempre più alcuni di quei “grovigli” interiori insistendo proprio sugli aspetti che più si prestano ad una lettura psicologica e forse psicanalitica delle sue opere.

Egli ha infatti intanto talmente ingrandito in alcuni suoi dipinti taluni frutti od ortaggi da fargli assumere un’iconicità emeblematica, assegnandogli un ruolo che va molto oltre quello di una semplice frutta “in posa” e, tanto più, quello di semplice strumento per manifestare il suo virtuosismo e le sue capacità tecniche.

Ha inoltre semplificato le ambientazioni, riducendo al minimo quegli elementi o quegli oggetti “esterni”, come alzate di cristallo o d’argento, panni di seta o altre stupidaggini del genere (oggetti scelti per provare soltanto la sua abilità ottica e manuale nel campo delal raffigurazione della luce, dei riflessi e delle variazioni tonali) che, denunciando un’ambientazione “borghese”, venivano a mascherare le ragioni più profonde e forse ignote a lui stesso, a causa delle quali egli aveva scelto, e sceglie, di raffiguarre frutta deforme o verdure botorzolute.

Gli avevo suggerito (ma ogni suggeritmento “critico” viene spesso ignorato dgli artisti, anche se il tarlo rimane e lavora, col tempo, nella loro mente) di sostituire a delle belle quanto insulse alzatine d’argento, dei barattoli di Coca-Cola o degli oggetti di plastica o di plexiglas, come per “datare” visivamente il suo lavoro.

Era questo un suggerimento forse banale, e i risultati sarebbero stati certo non nuovi (c’è una schiera di artisti che lo ha sperimentato e che continua a farlo), di cui egli ha fatto volentieri a meno.

Gli è bastato concentrarsi sull’oggetto “frutto” oppure “ortaggio”, ridurre al minimo il contesto, semplificare ulteriorimente la tavolozza cromatica e concentrarsi sui rapporti tra nero e giallo, o tra due o tre colori, per giungere a qualcosa di veramente più “contemporaneo”, perché totalmente proiettato dentro al sua psiche e la sua personalità, qualcosa che probabilmente rivela un suo disagio ineriore, forse un’insoddisfazione, mascherata, all’esterno, dall’aria di giovane artista per bene che lavora per i rappresentati di quelle classi borghesi, ignare di quel che si nasconde dentro il dipinto che con tanta devozione per l’incredibile maestria esecutiva che rivela, essi (per fortuna) volentieri acquistano.

Avevo già osservato che se le figure e i corpi  dipinti da Corona possono aprire davanti ai nostri occhi anche l’abisso dell’eseibizione e del lusso, e del copmpiacimento di sé, è nei “ritratti” di frutta e di ortaggi che Corona aggiunge veramente qualcosa di nuovo al genere impropriamente detto della “natura morta”, suoperando la pittura antica e moderna. Frutta e ortaggi vi appaiono infatti vivi, sensuali, quasi erotici persino.

L’agghiacciante autodisciplina chi si sottopone l’artista nei ritratti disegnati e dipinti, cede forse inconsciamente, per un attimo, a una visione della natura in cui entra prepotentemente, e paradossalmente, anche una componente carnale, una sensualità sconosciuta ai personaggi umani.

Più vivi e parlanti della galleria di ritratti dei nostri contemporanei, i “ritratti di frutta” ci parlano anche della personalità nascosta dell’artista e ci aiutano a decifrare il suo “io”. Camuffato da chirirgo plastico, Corona ha pur un’anima: le sue pere cotogne, sinfonie di gialli e neri (ancora un paradosso: la pittura di Corona si avvicina qui al monocromo, mentre i disegni a matite nere rasentano la policromia!) sembrano a prima vista ricalcare il mondo intimo e segreto dei Paesi Bassi, ma hanno una perepotente fisicità alla Tommaso Salini o alla Tanzio da Varallo: fra le gibbosità e le rotondità della frutta, si intravedono evocazioni di corpi femminili, cosce e natiche fromose che celano intersizi e ricetti omborsi.

Non è un gioco all’Arcimboldo, è una dichiarazione d’intenti.

E’ una fiducia nella natura e nella vita, è un desiderio d’esplorare mondi segreti e insondabili. E tanto più vive appaiono queste frutta grazie alle loro solide rotondità, che le loro malformazioni e i loro “difetti” (come nella ormai famosa ‘Mela cotogna’ o nelle ‘Due pere cotogne’ del 2003, ora in forunate collezioni private) ci sembrano essenziali a definire il loro stato potenzialmente (stavo per dire “virtualmente”) vivo.

Le nuove opere qui presentate, quasi tutte realizzate tra il 2005 e il 2006, consetono di confermare questa (forse irriverente) lettura.

Come non osservare che i due limoni raffigurati nel ‘L’Incontro’ sembrano personaggi colti nel momento in cui s’annusano e forse stanno per baciarsi? E il titolo, si badi bene, è stato messo da Corona stesso.

Oppure si guardi meglio la straordiaria e nuova per cromia Zucca di fronte (ABnormal), appunto, messasi forse lei stessa “di fronte” come per un ristratto umano.

Che dire del ‘Limone in posa’? Parla il titolo che gli ha dato Gianluca: si intende infatti che i limone posa decidere come megli mettersi davanti all’obbiettivo del fotografo-pittore.

E’ dunque da vedersi in questi “nuovi” titoli anche l’accettazione di una lettura, quale quella che si è tentata qui sopra, o il manifesto di una cosciente umanizzazione della natura fatto prorpio e accettato dall’artista? Forse, ma non solo.

Qui sta anche un progresso rispetto a quanto quesi limoni sono in grado di vocare. A e non evocano tanto i versi indimebticabili di Eugenio Montale (cui pure ama riferirsi il nostro Gianluca), ma un mondo più sensuale e forse torbidamete più remoto, benchè impastoiato col prestente: un Seicento coniugato con un set cinematografico, o con una location per un forografo di oggetti di design allestita in un loft di periferia, dove chissà quanto cose accadono una volta finite le riprese.

E se l”Astrozucca’ richiama banalmente un’astronave, un po’ accidentata e come arenatasi sulla spiagga (ma, allora: astronave o ancora una volta, essere vivente come, per dire, una balena o un grosso cetaeo), lascio volentieri ai visitatori di questa mostra di proseguire il gioco delle associazioni mentali (e quello di scoprire anche qualche lato oscuro della nostra psiche) guardando il Rametto di albicocche (Passione), frutti che, già di per sé, evocano dolcezza e peccato, come, appunto, nella pittura medievale e rinascimentale.

Ci sono artisti che, con coraggio, mettono tutti se stessi in gioco, esibendo il loro copro e loro drammi, o video installazioni o sequenze fotografiche che denunciano il malessere dell’uomo nella società contemporanea, o i gravi problemi che ci assillano quotidianamente.

Le pitture di Corona sembrano, a prima vista, collocarsi fuori dal tempo e dallo spaizo e offrirci una visione intimista e senza traumi del presente. Ma basta addentrarvicisi un poco, non lasciarsi ingannare dalla tecnica, per scoprirvi tanti altri significati (proprio come accadeva nella pittura antica) e, soprattutto, per ritrovarvi gli abissi dell’Io e, forse, di una parte di quelli in cui tutti tentiamo ogni giorno di non cadere.