Il Canto delle Cose Mute

Il Canto delle Cose Mute

e la pittura degli affetti nell’opera di Gianluca Corona

di Mario Marcarini

 

Heureux celui qui peut d’une aile vigoureuse
S’élancer vers les champs lumineux et sereins;
Celui dont les pensers, comme des alouettes,
Vers les cieux le matin prennent un libre essor;
Qui plane sur la vie, et comprend sans effort
Le langage des fleures et de choses muettes!
Charles Baudelaire, “Elevation”, Fleurs du mal, 1857
 
 

 

La percezione di un “linguaggio delle cose mute”, intuizione applicata alla critica d’arte da Henri Beyle (Stendhal) già nel primo ventennio del diciannovesimo secolo, è la condizione sensoriale più evidente per chi – connaisseur, dilettante o profano – posi per la prima volta lo sguardo su un dipinto di Gianluca Corona.

La mente dell’osservatore, stimolata dal rigore della composizione, gratificata da una tecnica pittorica esemplare (che affonda le radici in una storia antica della figurazione che tuttavia respira a pieni polmoni l’aria dei giorni nostri), sedotta da un sapiente, misurato uso del colore (che giunge oggi gradatamente nel perscorso coerente di questo artista scrupoloso ad un sensibile schiarirsi della gamma cromatica), ebbene la mente avverte che sotteso ad un codice simbolico fortemente evocativo, il progetto estetico e filosofico di Gianluca nasconda un sub-testo ricorrente, un elemento “dichiaratamente sottaciuto” ma evidente, ossia l’alchimia che lega la tavolozza cromatica e la disposizione degli elementi nello spazio all’evocazione musivale.

Non occorre conoscere personalmente l’Artista per percepire la sua passione per la musica d’arte, amore nutrito dalla quotidiana frequentazione, dalla plifonia rinascimentale al barocco, dall’ottocento romantico fino a Wagner ed oltre (lo testimoniano i titoli di molte sue tavole, ammiccanti al melodramma o al sinfoniscmo); nei quadri attorno ai quali oggi prende piede la nostra breve odissea, la presenza di questa categoria estetica si muove placida, tranquilla nell’atmosfera stessa che pervade le tavole del Maestro.

Significativi e densi di simbologie e mistero al pari degli oggetti, dei frutti, dei fiorni raffigurati, gli spazi riservati ai “vuoti” (siano essi pareti neutre, piani prospetticamente inclinati, tavole oppure ancora immaginifiche teche lignee che evocano il secolo d’oro della natura morta e della vanitas barocca, come accade in “Inside”, trittico del 2014 o in “Omaggio a Cotan”) hanno la potenza espressiva di un’atmosfera che vibra, e che pare peferttamente ed armonicamente “accordata” al resto della composizione, divenendone parte integrante.

Ecco che ancora una volta – e con una modernità sconvolgente – l’amore per l’antico si miscela nelle opere di Corona al ricordo della strepitosa stagione di Giorgio Morandi, a cui la tavolozza del pittore milanese sembra guardare con sempre maggiore interesse nel corso degli ultimi anni.

Ciò che di nuovo e originale caratterizza il perscorso di Corona è, comne già detto, il puntuale riferimento alla musica; è questo un elemento costante che attraversa due tele speculari intitolate “Distanza” e ripempie di consonanze gli spazi aerei, li illumina di intrecci contrappuntistici che trasformano i “vuoti” colti dall’occhio in altrtettanti “pieni” capaci di tocare il cuore.

Per comprenderlo appieno basterebbe idealmente “abbassare il volume” di tutto ciò che ci cirdonda, tendere l’orecchio e pascere la mente in un’intavolatura di liuto di Kapsberger o in una Suite di Sylvius Leopold Weiss, le cui geometrie contrappuntistiche si rispecchiano nella candida spontaneità protagonista della comnposizione “Con zucca e susine”.

La definizione di “composizione” per il lavoro di Corona beneinteso non prende solamente in considerazione la disposizione finale degli ideali attori in scena, e nemmeno si può accontetare di confinare l’analisi alla pur calibrata e consapevole distribuzione dei piani cromatici, con i relativi “pieni” e “vuoti” (entrambi risonanti e consonanti, come già accennato).

Al pari di un attento e sensibile inventore di musica, il Maestro sa concepire percorsi ben più vasti ed articolati di una singola opera (come in una Suite dell’amatissimo Johann Sebastian Bach, in cui anche il susseguirsi delle tonalità segue una logica, un fine estetico, che può essere quello della seduzione, della rappresentazione dello scorrere del tempo, dell’approsimarsi della morte, di un climax che conduce alla comquista di un oggetto d’amore); ecco dunque che la sequenza in cui ci viene presetata la “Suite” intitolata “Otto sfumature” (2013) può essere letta da un punto di vista inedito, non diretto solamente al puro appagamento dell’occhio nelle scintillanti cromie e nei visrtuosismi della figurazione, ma come una sorta di intimo percorso iniziatico, una mirabolante e privata Wunderkammer in cui l’Autore mette a nudo allegoricamente i propri segreti.

Ovviamente non a tutti sarà dato cogliere in profondità. ma sicuramente ciascuno degli spettatori sarà sedotto dai suggerimenti della propria personale sensibilità: come il musicista utilizza consapevolmente ad esempio la tonalità di Do maggiore per esprimere ed evocare soennità e marzialità, sicurezza e solarità, del pari il perdorso cromatico deato dal Pittore porerà il fruitore a confrontarsi con sentimenti propri, fornendo tuttavia suggerimenti, evocando atmosfere, e proprio come accade in musica, lasciando ogni possiilitò aperta, in un’ambiguità che è l’essenza stessa dell’arte e della sua fruizione.

Certamente di più facile ed immediato approccio (ma non per questo meno ricchi di possibilità di lettura) appaiono quei lavori di Corona in cui protagonista è una sorte di ideale, allegorica scena teatrale, vera e propria coreografia, in cui gli oggetti collocati nello spazio possono apparire come tenori e soprani che agiscono su un palcoscenico; sono i due guerrieri wagneriani che si affrontano sulla scena de “I guardiani” oppure i tre portagonisti di un triangolo amoroso in “La contesa”, schierati di fronte al pubblico in un terzetto pieno di fuoco e passione, come ne “Il pirata” di Vencenzo Bellini.

Infine come non ritrovare la sinstassi scabra e ascetiva del Bernanos de Les dialogues des Carmélites (beninteso unita alla sua seconda pelle, costituiuta dal pendant musicale inarrivabile a firma di Francis Poulenc) nella tavola in cui il fasto luiminescente di un trionfo di mele rosse si immerge in un’affettuosa conversazione – quasi annillando la propria vanità – con pochi oggetti d’uso quotidiano? Lo stesso clima si replica nelle “Mele di Montezago” o ne “Le mele di Miranda”.

L’ascentismo lascia addirittura senza fiato di fronte alla scabra sequenza di “Bread parade”. La sola evocazione del Pane come simbolo delle nostre radici cristiame sarebbe sufficiente a stimolare una ridda di riflessioni, ma in questo caso la dispozione “francescana” degli elementi in uno spazione fatto di nulla, solo suggerito e definito da una semplice prospettiva ribassata, ci portano a vagheggiare gli esiti più alti ella polifonia rinascimentale: “A quattro voci” potrebbe essere il sottotitolo di questo capo d’opera in cui pare di assistere ad una sacra conversaizone di quattro Santi che intonano lodi all’Altissimo.

Corona ci spiega, con una semplicità che solo la saggezza e l’estrema sintesi regalano, che gli affetti narrati in pittura possono divenire valori universali, capaci di parlare ai sensi come alla ragione; e qui il termine “Consonanza” – non a caso utilizzato per intitolare un lavoro denso e drammatico –  ci porta a considerare la musicalità della sua pittura come un elemento imprescindibile, un anello indispendabile per la condivisione di un microcosmo intellettuale tanto raffinato quanto comunivativo.

Ecco che anche i concetti più drammatici, come la riflessione sulla morte, evidente in “Vanitas” (2014) si stemperano nell’armonia della disposizione, nella rarefazione della tavolozza, come i contrasti e i cromatiscmi nel finali di un madrigale di Carlo Gesualdo da Venosa, che dopo essersi infiammato in aspri contrasti pare svanire nella pirezza del canto.

Un breve capitolo merita un particolare “genere” della pittura di Corona, che spesso si dedica alla raffigurazione di conchiglie, altro elemento gradito all’arte barocca e riferimento immediato alla musica più ancestrale, quella degli strumenti più antichi e mitici (tali erano, unitamente alla voce umana, le conchiglie nelle ere remote): ecco che, chiudendo un ideale percorso circolare si torna alla rappresentazione visiva del canto delle cose mute; anche le conchiglie, disposte in scena (“Incontro” oppure “Famiglia marina”) paiono come i protagonisti di un concerto, o di un momento intimo di musica.

E’ in defnitiva la cifra stilistica di Corona, colta, quasi svelata nella usa ispirazione più intima e forse per questo ancora più umana e affascinante.